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KARATEKA
TRAMA E DETTAGLI
La giovane principessa Mariko è stata rapita da Akuma, un crudele signore della guerra che ha imposto il suo dominio con pugno di ferro. Rinchiusa nelle oscure segrete del suo impenetrabile castello, la principessa attende la salvezza. Spetta ora al protagonista affrontare un lungo e pericoloso cammino attraverso i territori controllati da Akuma, superando combattimenti contro i suoi guerrieri e affrontando numerosi ostacoli. Solo sconfiggendo il tiranno in un ultimo, decisivo duello sarà possibile riportare Mariko in salvo e porre fine alla tirannia.
STORIA
DAL DOJO ALL'HOME COMPUTER
Chiunque conosca Prince of Persia dovrebbe sapere che il primo vero colpo di genio di Jordan Mechner risale a qualche anno prima, precisamente al 1984, quando un giovane studente della Yale University con una passione sfrenata per il cinema d’azione e i videogiochi decise di fondere le sue due passioni in un unico progetto: Karateka. A colpire fin da subito fu la sorprendente maturità con cui Mechner affrontò lo sviluppo. In un’epoca in cui i giochi erano spesso frammentari e privi di un impianto narrativo coerente, lui si preoccupò di costruire un impianto quasi cinematografico: la storia di un eroe senza nome che si infiltra in una fortezza per salvare la principessa Mariko dalle grinfie del malvagio Akuma.
Il gioco venne inizialmente sviluppato per Apple II e pubblicato da Brøderbund nel novembre del 1984. Il porting per Commodore 64, uscito nel 1985, fu uno dei più riusciti tra quelli disponibili all’epoca, pur con le inevitabili differenze tecniche dovute all’hardware. Curiosamente, Mechner si era ispirato fortemente ai film orientali e alla tecnica del rotoscope, utilizzata anche da suo padre (musicista e regista) per realizzare movimenti realistici. Le animazioni del protagonista, che oggi possono sembrare semplici, all’epoca furono considerate rivoluzionarie proprio perché registrate dal vero e poi disegnate frame per frame.
Un dettaglio simpatico riguarda il modo in cui il gioco venne distribuito: alcuni negozianti raccontarono che i clienti, attratti dallo stile “filmico” del titolo e dall’insolita copertina (che raffigurava un combattente giapponese e una geisha), lo compravano convinti di aver preso un film in VHS. Questo aneddoto, confermato in alcune interviste dell’epoca, la dice lunga sullo stile visivo scelto da Mechner, già allora influenzato dalla grammatica del cinema.
Un altro fatto poco noto riguarda la versione per Commodore 64: il team incaricato del porting dovette comprimere il codice originale per adattarlo alle specifiche del C64, e pur con alcune limitazioni, riuscì a mantenere intatto lo spirito dell’opera originale. La conversione venne affidata a Scott Spanburg, che lavorò con grande cura per mantenere il feeling dell’originale. Non tutto, però, venne trasportato fedelmente: alcune cutscene furono tagliate o semplificate, e la colonna sonora dovette essere riadattata.
Nonostante ciò, Karateka fu accolto positivamente anche su Commodore 64, pur ricevendo alcune critiche da parte della stampa specializzata che giudicava eccessivamente semplicistica la trama e troppo rigido il sistema di combattimento. Tuttavia, per un gioco del 1985, il fatto stesso che ci fosse una trama articolata, con un antagonista caratterizzato e un obiettivo narrativo chiaro, rappresentava già un passo avanti rispetto a molti coevi.
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VIENI! TI STO ASPETTANDO!".
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GAMEPLAY
DISCIPLINA E TEMPISMO IN SALSA PIXEL.
Il gameplay di Karateka si presenta con un’impostazione sorprendentemente rigorosa e lineare, quasi ascetica, riflettendo idealmente lo spirito delle arti marziali. L’intero gioco è basato su una lunga camminata verso la fortezza di Akuma, durante la quale il protagonista deve affrontare una serie di combattimenti uno contro uno. A prima vista, potrebbe sembrare un picchiaduro, ma sarebbe fuorviante etichettarlo come tale: Karateka è piuttosto un gioco d’azione con elementi strategici, dove tempismo e precisione nei movimenti sono più importanti della pura rapidità nei comandi.
Il sistema di combattimento si basa su una posizione di guardia da cui il protagonista può sferrare calci e pugni, sia alti che bassi. Ogni colpo ricevuto o inflitto consuma una parte dell’energia dell’avversario o del giocatore, e l’obiettivo è sconfiggere tutti i guardiani fino a raggiungere Akuma. Una caratteristica interessante è che se si prosegue nel cammino senza adottare la posizione di guardia (tasto “guard stance”), il protagonista può essere colpito e ucciso all’istante. Questo elemento ha colto di sorpresa più di un giocatore alle prime armi, ed è stato oggetto di critiche da parte di chi lo riteneva troppo punitivo.
I controlli, sebbene oggi risultino rigidi, furono considerati adeguati al tempo, anche se non mancarono osservazioni sulla mancanza di varietà nei movimenti. Tuttavia, proprio questa semplicità contribuiva a rendere Karateka un gioco accessibile ma al contempo impegnativo. Ogni incontro richiede concentrazione: buttarsi alla cieca equivale quasi sempre a soccombere in pochi secondi. In questo senso, il titolo richiede disciplina e pazienza, due qualità perfettamente in linea con l’immaginario marziale che lo permea.
Una decisione di game design piuttosto radicale, che fece discutere all’epoca, riguarda l’assenza di un sistema di salvataggio o continue. Morire significa ricominciare dall’inizio. Questa scelta fu difesa da Mechner come parte integrante dell’esperienza: il gioco andava vissuto come un film d’azione, dove la tensione cresce progressivamente, e ogni errore poteva essere fatale. Una filosofia audace, ma che contribuì anche a scoraggiare parte dell’utenza meno paziente.
Un’altra critica frequente fu l’eccessiva ripetitività dei nemici, che cambiavano solo marginalmente aspetto e difficoltà. Non esisteva un reale apprendimento dell’intelligenza artificiale: gli avversari seguivano pattern rigidi e prevedibili. Tuttavia, questo non impedì a molti giocatori dell’epoca di appassionarsi al titolo e completarlo più volte, alla ricerca della run perfetta. Alla fine, Karateka offriva un’esperienza più vicina alla meditazione interattiva che alla rissa da bar: ogni passo, ogni gesto, aveva un peso. E per i più pazienti, era anche enormemente gratificante.
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GRAZIE AL SISTEMA DI GIOCO SARA' POSSIBILE EFFETTUARE DIVERSI TIPI DI CALCI. QUESTO IN FACCIA DEVE FARE PARECCHIO MALE.
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GRAFICA E SONORO
IL CINEMA SU COMMODORE 64
Karateka per Commodore 64 può sembrare spartano, ma va valutato nel contesto storico in cui è uscito. I personaggi sono disegnati con silhouette stilizzate, animate con un’attenzione insolita per il dettaglio corporeo. Come già accennato, Mechner utilizzò il rotoscope per dare vita ai movimenti del protagonista, e sebbene il C64 non potesse vantare la stessa fluidità dell’Apple II, il risultato rimane comunque notevole. I frame sono pochi, ma ben posizionati, e conferiscono al combattente un senso di realismo allora inedito.
Gli scenari sono minimalisti: uno sfondo di montagna, un portone, un ponte sospeso e le mura della fortezza. Non c’è una gran varietà cromatica, ma ogni elemento è funzionale a costruire un’atmosfera sospesa e un po’ inquietante. La scelta di usare toni freddi e contrasti netti crea un’estetica quasi zen, dove ogni ambiente diventa parte del percorso spirituale del protagonista. Il minimalismo non era solo una necessità tecnica, ma anche una scelta stilistica coerente con l’immaginario orientale.
Sul piano sonoro, Karateka per Commodore 64 presenta luci e ombre. La versione originale prevedeva l’uso di un tema musicale ispirato alla tradizione giapponese, composto da Jeffery Mechner, padre di Jordan. Nel porting per C64, la melodia fu riadattata per il chip SID, con risultati modesti. Le musiche sono presenti solo in alcuni momenti chiave, mentre durante il gameplay si fa uso di effetti sonori piuttosto essenziali: colpi secchi, passi e grugniti. Questa scelta venne giustificata con la volontà di aumentare la tensione durante i combattimenti, ma molti critici dell’epoca giudicarono il comparto audio sottotono.
La colonna sonora in sé non rimane particolarmente impressa nella memoria, ma contribuisce comunque alla costruzione di un’atmosfera rarefatta e un po’ cupa. L’assenza di una traccia musicale continua potrebbe oggi essere vista come una mancanza, ma all’epoca fu anche apprezzata da alcuni recensori che lodarono il suo ruolo “quasi teatrale”. Una nota curiosa è che il tema musicale iniziale si ispira direttamente alla scala pentatonica giapponese, anche se con semplificazioni necessarie per le capacità limitate del chip sonoro.
Dal punto di vista visivo, la scena finale è uno dei momenti più ricordati del gioco: il protagonista che abbraccia Mariko, se il giocatore ha avuto l'accortezza di avvicinarsi in posizione neutra, e non in modalità combattimento (altrimenti la principessa lo colpisce, provocando una delle morti più frustranti e grottesche del gaming anni '80). È un colpo di genio registico che mescola pathos e umorismo, e che ha fatto storia proprio per il suo tono inaspettato. Anche questa piccola gag fu ripresa da molti recensori come una dimostrazione di quanto Karateka sapesse giocare con i codici del videogioco e del cinema.
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ALCUNE FASI DI GIOCO CHE MOSTRANO LA CAPACITA' NARRATIVA DI BRøDERBUND
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LONGEVITA' E RIGIOCABILITA'
COMBATTERE CONTRO IL TEMPO
Se c’è un aspetto di Karateka che ha diviso la critica più di ogni altro, è la sua longevità. Il gioco, di per sé, può essere completato in meno di mezz’ora una volta memorizzati i pattern e appresi i meccanismi. La linearità assoluta del percorso, unita alla mancanza di modalità alternative, di livelli di difficoltà variabili o di segreti nascosti, fa sì che l’esperienza sia piuttosto limitata in termini quantitativi. Eppure, c’è un elemento che ha contribuito a renderlo rigiocabile: la voglia di perfezione.
Molti giocatori tornavano a Karateka non per scoprire qualcosa di nuovo, ma per completarlo senza errori, senza perdere vite, in modo elegante, quasi come un kata eseguito a memoria. Questo approccio quasi rituale ha garantito al gioco una certa forma di longevità atipica, basata sulla ripetizione e la padronanza, più che sulla varietà. È la stessa logica che ritroveremo anni dopo in Prince of Persia, che Mechner costruirà su basi molto simili, ma con un’architettura ludica più sofisticata.
Tuttavia, bisogna essere onesti: Karateka non ha una grande profondità strutturale. Una volta completato, il titolo non offre incentivi concreti alla rigiocabilità, a parte il piacere personale. Per questo motivo, già alla fine degli anni ’80, alcuni critici lo definivano “un’esperienza elegante ma effimera”. Alcune riviste europee, come Zzap!64, lodarono il suo stile e la fluidità delle animazioni, ma gli assegnarono voti medi proprio per la scarsità di contenuti e la difficoltà nel mantenere alto l’interesse dopo le prime partite.
A rendere le cose più difficili c’era anche la già citata assenza di salvataggi: dover ricominciare sempre da capo, per molti, si traduceva in frustrazione piuttosto che motivazione. Nonostante ciò, Karateka è riuscito a guadagnarsi uno zoccolo duro di estimatori proprio grazie alla sua purezza meccanica e alla sua atmosfera unica. È uno di quei titoli che non si dimenticano facilmente, anche se non si toccano più per anni.
In definitiva, Karateka per Commodore 64 non è un gioco da divorare, ma da assaporare lentamente. Non ha la longevità dei grandi classici arcade, né l’esplorazione dei titoli d’avventura. Ma ha stile, coerenza e personalità. E per un gioco del 1985, non è poco. Anche se oggi può apparire datato e statico, chiunque l’abbia giocato all’epoca ricorda l’emozione del primo scontro, l’ansia nell’avvicinarsi alla principessa, e quel senso di compimento finale che solo pochi giochi sapevano offrire. Una reliquia del passato, certo, ma forgiata con disciplina e visione.
• Storia cinematografica integrata nel gameplay
• Atmosfera orientale ben curata
• Originalità nelle meccaniche di combattimento
• Gameplay lento e ripetitivo secondo parte della critica
• Elevata rigidità nei controlli
• Assenza di colonna sonora durante i combattimenti
• Bassa rigiocabilità dopo il completamento
VOTO FINALE
7
KARATEKA: LONGPLAY
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